La coscienza dell’uomo antico, preda dell’esteriorità e interamente immersa nell’ambiente, ha vissuto su due emozioni cardine che la natura è in grado di suscitare: meraviglia e terrore.
Il percorso di civilizzazione, nelle pieghe di millenni e millenni, ha visto un sempre più deciso intervento di manipolazione della natura, per costruire ogni cosa di cui si aveva bisogno per la sopravvivenza. Costruire per noi implica distruggere. Le azioni della nascita di ogni nostra produzione sono tagliare, perforare, scavare, strappare, intagliare, incidere, spaccare.
La nostra esistenza si fonda su queste azioni.
Nel costruire, si è spesso finito per svelare, conoscere, carpire segreti e saccheggiare la natura. Con la comprensione, si diluiscono la meraviglia ed il terrore. Diventiamo civili perdendo magia.
La poesia è la nuova casa della natura, perché ne celebra la potenza e la bellezza. E’ come un salto dimensionale, la natura resta un soggetto, di cui si preservano le potenze, i dettagli e le sfumature in un afflato dal sapore antico ma sempreverde. Nel mondo fagocitato dall’azione e dall’utile, invece, la natura diventa oggetto, da predare e usare, come fosse da sempre “natura morta”.
Di tanto in tanto, gli elementi tornano a mostrarci i reali rapporti di forza: il fuoco con un vulcano, l’acqua con un’inondazione, il vento con una tempesta o la terra con un terremoto, è la forza della natura in grado di annientare se stessa a creare ancora sgomento nell’uomo.
La natura sa crearsi e cancellarsi da sé perché non riconosce la propria identità. Noi, costruendo la nostra identità, abbiamo dato nomi anche ai suoi luoghi. Montagne, fiumi, mari, colline, vallate, sono tutti identificati da un nome, una nostra proiezione per parcellizzare il tutto, una divisione in parti, una frammentazione dell’insieme, come in un coro di cui ci ostiniamo a non percepire il senso fluido ed unitario. Così abbiamo nomi persino per le tempeste ed i cicloni che in un istante disfano ciò che la natura stessa ha plasmato in secoli e secoli. Sono i nostri nomi, non i suoi. Servono a illuderci di poter controllare. La natura è però un sistema, un insieme, in cui tutto è uno nel suo continuo movimento. Questo è ciò che ancora può destare in noi meraviglia e terrore, mai così vicini come ora.
Desta ammirazione ciò che ci spaventa.
Non ci resta che la celebrazione che l’arte – con poesia, musica, pittura e ultimamente anche architettura – può cantare per il mondo in cui viviamo.
“Sarà presto il crepuscolo ma ancora le nuvole sono chiare, gli abeti non ancora neri, ché il lago ne illumina le trasparenze. E tutto è verde, di un verde ben più ricco di un concerto d’organo. Bisogna ascoltarlo molto vicini alla Terra, le braccia chiuse, e così gli occhi, quasi dormendo.
Non è necessario infatti camminare come padroni e voler dare un nome alle cose; sono loro che ti diranno chi sono, sempre che tu sappia ascoltarle sottomesso come un amante; perché improvvisamente, nella pace intatta di questa foresta del nord, la Terra è venuta a te, visibile come un angelo dalle sembianze femminili, e in questa apparizione, in questa solitudine così verde e così popolata, sì, anche l’angelo è vestito di verde, di crepuscolo, di silenzio, di verità. E allora c’è in te tutta la dolcezza che si dà nell’abbandonarsi a un abbraccio che ti afferra.
Terra, angelo, donna, tutto questo in una sola cosa, che amo e che è in questa foresta. Il crepuscolo sul lago, la mia annunciazione.
La montagna: una linea.
Ascolta!
Sta succedendo qualcosa, sì.
L’attesa è immensa, l’aria è frizzante sotto una pioviggine leggera; le case che allungano quasi raso terra il loro legno rosso e rustico, il loro tetto di paglia, sono là, dall’altra parte del lago…”
(Henry Corbin)”.
CLAUDIO MARUCCHI
Testo tratto da NaturalArtBook “Il senso di Vaia”
Immagine: Paolo Ceola “Albero solitario” pittura digitale su alluminio, 140×100 cm. 2016